IL RAZZISMO NELL’IMPERO ROMANO

La discriminazione razziale era ed è tuttora all’ordine del giorno nella nostra società. Tuttavia i mass media e il “senso” dell’uomo comune danno come per scontato e ovvio farlo risalire proprio all’impero romano. Basta vedere le ultime pellicole di Hollywood come Pompei.
Noi rifiutiamo categoricamente questa visione americana dell’imperialismo e insistiamo sul difetto di molti a voler leggere con occhi contemporanei una società che non prevedeva termini come “razza”, “razzismo”, “etnocentrismo”. Parte di questo problema è sicuramente legato alla necessità della società odierna di riflettersi soprattutto nella storia contemporanea, quella più studiata nelle scuole e di riferimento per il mondo giornalistico. Questo “limite cronologico” contribuisce ad interpretare i fatti e le questioni sociali secondo binari novecenteschi, alimentando un circolo vizioso che vede il mondo greco patria della democrazia moderna e della libertà/mondo romano impero galattico dei Sith. Sradicare questa concezione è difficile per molti, perciò non ditegli quanti schiavi utilizzavano gli Ateniesi nelle miniere del Laurio.

Studiosi come Snowden e Thompson ritengono che il fenomeno del razzismo legato al colore della pelle nella società antica non sia mai esistito e pertanto prima di addentrarci in un discorso più complesso rispondiamo ad una prima domanda: come è entrata in contatto la società greco-romana con la popolazione nera e quale era la percezione?

L’incontro con queste popolazioni avvenne in diversi momenti e per vie differenti, e molteplice fu anche la percezione stessa. Punto di incontro/scontro, precedentemente ai greco-romani stessi, è sicuramente l’Egitto faraonico, vero e proprio intermediario tra la cultura mediterranea e quella “nera”, al punto che lo stesso termine “aithiops” indicava universalmente i negroidi. Già a partire dalla XII dinastia (1985-1773 a.C.) gli egiziani avevano operato una conquista a Sud della Tebaide, arrivando a controllare il territorio compreso tra la Prima e la Seconda Cataratta (regione che nel periodo tolemaico assumerà il nome di Dodecaschoinos), ed è proprio qui che si sviluppa una interessantissima interazione con le popolazioni nubiane, popolazioni dalla carnagione scura. Quest’area diviene presto un luogo di incontro e di scontro senza una frontiera stabile, la stessa popolazione inizia ad assumere l’influenza egiziana, dunque mediterranea. Il regno di Kush, che si trova a lottare con i faraoni per il controllo di questa regione e che arriva fino all’Etiopia, piano piano assume i costumi egizi, al punto tale che troviamo testi epigrafici che attestano la presenza di soldati kushiti nelle guardie del faraone. Il livello di sincretismo arriva ad un livello tale che, sperimentando per secoli questa dominazione, successivamente sono gli stessi kushiti a conquistare l’Egitto, dando vita alla XXV dinastia faraonica, una dinastia etiope. Dobbiamo dunque riconoscere che il livello di integrazione doveva essere tale da permettere una situazione simile, ovvero che una popolazione negroide poteva addirittura dominare un regno mediterraneo, dando vita ad una società mista. Da quel punto in poi sono attestati costantemente nelle città principali egiziane personaggi chiaramente nubiani.
Per quanto riguarda i greci si ipotizza una loro prima e diretta esperienza durante proprio le guerre persiane, e ancora prima con la fondazione dell’emporio di Naukratis proprio in Egitto che, come abbiamo visto, è l’intermediario principale.
Per i romani invece il primo incontro attestato è con le guerre puniche, dove possiamo trovare delle monete raffiguranti conduttori di elefante dell’esercito di Annibale con chiare fattezze negroidi. Siamo ancora in una fase di contatti episodici, rari e i dubbi probabilmente possono rimanere, soprattutto perché probabilmente i guerrieri etiopi annibalici son stati successivamente impiegati come schiavi o come forma di attrazione negli spettacoli circensi.
Il salto di qualità di questo rapporto con l’Africa nera avviene però con la dominazione romana dell’Egitto, quando i contatti con queste popolazioni diventano più diretti e continui. Terre che segnano il confine ultimo dell’Impero stesso e che per ostinatezza e resistenza non faranno mai parte del mondo romano, ma sicuramente non per una chiave razzista. C’è una data fondamentale: nel 21 a.C. Augusto incontra a Samo i Meroiti, stabilendo rapporti pacifici e duraturi. Il grande impero, visto come una potenza totalizzante che vuol rendere in schiavitù il mondo intero (secondo Hollywood) sviluppa accordi fondamentali in vista della possibilità di poter rilanciare commerci a lunga distanza. Gli stessi etiopi, in vista di questa situazione pacifica, interagiscono con la provincia romana stessa e stabiliscono importantissimi mercati. Non mancheranno ovviamente momenti di tensione, ma la stessa aura di “primitiva innocenza”, che aleggiava intorno agli Etiopi di Omero, svanisce nel momento in cui incominciano a mescolarsi con i romani.
La percezione greco-romana non era dunque di opposizione totale e siamo lontanissimi da discorsi totalizzanti che puntano alla cancellazione della “razza inferiore”. L’analisi non può prescindere dalla valutazione del modo in cui i greci e i romani percepiscono il “diverso” e il “barbaro”. Da qui son state avanzate numerose teorie circa il presunto razzismo della cultura greco-romana nei confronti dello straniero. La rappresentazione del barbaro non è univoca, a volte può essere sicuramente ostile, ne è una prova la scritta ritrovata sulla tomba di un eques proveniente dall’Arabia, “morte agli arabi”. Tuttavia il discorso non si riduce a un razzismo novecentesco; semplicemente sono rappresentati come “altri”, ma non per un fatto di pelle. Tentare di capire la logica del “diverso” è difficile ma è fondamentalmente un discorso più generico che specifico perché nello stesso discorso rientrano anche popolazioni caucasiche semplicemente “non greco-romane”. Fondamentalmente la parola barbaros/barbarus è una voce onomatopeica che indica come veniva percepita, da un greco e da un romano, una parola straniera. Flavio Giuseppe, per esempio, inizia la sua “Guerra Giudaica” dicendo che riscrive in greco una storia che aveva scritto nella sua lingua natale per i barbari ebrei, della sua etnia dunque. Chiama barbari quelli che parlano come lui. Il termine, e il rapporto quindi, non esprime normalmente un negativo in sè, ma soprattutto un fatto culturale, non razziale. Se un barbaro parla greco o latino chiaramente non è più un barbaro.
Contemporaneamente non esistevano mitiche razze superiori dal punto di vista biologico. Interessante è anche l’approccio scientifico che si voleva dare di questa profonda differenza somatica tant’è che in ambito filosofico greco ippocratico si è tentata una “teoria ambientale”, ripresa dai romani stessi.
Sia a livello pratico che a livello teorico non esistono prove di razzismo, non c’è traccia di ostilità fondata in modo specifico sul colore della pelle. L’ostilità verso “l’altro” appare in forme di xenofobia e di discriminazione, ma è un discorso completamente differente. Questa opposizione al diverso, allo straniero, alla sua inferiorità, è tipica della matrice culturale greca dove la stessa appartenenza all’hellenicity voleva dire far parte del consorzio umano. Momigliano la definisce “cecità culturale”, cioè il disinteresse totale del mondo greco verso gli stranieri, ma la cultura romana appare fin da subito dotata di una tollerante coscienza multiculturale.

Nelle Res Gestae di Augusto, il paragrafo 3 del capitolo 32 (ma anche altri capitoli, qui non citati per mancanza di tempo) è un chiaro esempio:

(…) E moltissime altre genti hanno potuto sperimentare, sotto il mio principato, la buona fede del popolo romano, genti per le quali non c’era stata prima nessuna relazione diplomatica o di amicizia con il popolo romano.

(…) Plurimaeque aliae gentes expert sunt populi Romani fidem me principe, quibus antea cum populo Romano nullum extiterat legationum et amicitiae commercium.

Nella società romana ciò che costituisce motivo di superiorità o inferiorità è lo status sociale, e, almeno teoricamente, chiunque poteva migliorare la propria condizione economica e sociale. Singolare a questo proposito sono le parole di Filippo V di Macedonia, che, mentre è in guerra con Roma, addita i romani come modello per i Greci:

“Il Re Filippo ai magistrati e alla città di Larissa salute. Sono venuto a sapere che coloro che erano stati iscritti come cittadini sono stati tagliati via […] Infatti cosa c’è di più bello che il maggior numero di persone partecipino dei diritti politici per rendere forte la città in modo che la campagna non sia così turpemente inaridita come ora. É anche possibile osservare gli altri che si servono di Costituzioni simili. Di questi fanno parte anche i Romani, i quali anche gli schiavi, quando li hanno liberati, accolgono nel corpo civico e li rendono partecipi dei posti di potere. E in questo modo hanno fatto crescere la loro patria […].”

L’apparente rigidità tra i boni e gli altri, gli humiliores, si coniuga con una forte mobilità favorita da diversi fattori: la flessibilità e l’eterogeneità dei ceti, la non coincidenza fra condizione sociale e condizione giuridica e il peso prevalente che nella scala dei valori sociali di riferimento assumevano la capacità di affermazione individuale, il successo economico, l’abilità imprenditoriale, lo spirito di iniziativa. La disparità fra condizione sociale e condizione giuridica, per esempio, poteva consentire anche a uno schiavo o, a maggior ragione, a un liberto di conseguire posizioni di preminenza e di prestigio, garantite dalla buona riuscita di libere attività economiche. La duttilità complessa di tali intrecci dava luogo a situazioni eterogenee e quanto mai variabili: pur nella parità della posizione giuridica, nulla accumunava un ricco schiavo imperiale o un famoso auriga, pure di condizione servile, a uno schiavo di campagna o di miniera, comunemente sottoposto a trattamenti brutali e costretto a una disumana qualità di vita; così non era infrequente che molti cittadini liberi non godessero di un tenore di vita o di un peso sociale superiore a quello di molti schiavi e liberti; in alcuni casi, anzi, il rapporto decisamente si invertiva, permettendo a uomini non liberi o a ex schiavi di divenire personaggi potenti e di ricoprire un ruolo amministrativo, economico e sociale essenziale nella loro città o nell’impero. Le fonti epigrafiche testimoniano la frequenza e la rapidità di percorsi di ascesa sociale che conducevano gli individui dai livelli più bassi della gerarchia fino a posizioni di prestigio e di potere tipiche delle élites cittadine o imperiali. L’agone politico non prevede la partecipazioni di liberti nella società romana, eppure sono attestati moltissimi casi nelle realtà municipali di ex schiavi che vengono onorati con ornamento decurionalia e del sevirato: si trattava in sostanza di concedere non l’accesso all’ordo municipale dei decurioni (che la condizione libertina esclude), ma i privilegi ad esso normalmente connessi, come l’uso dei segni distintivi negli abiti e nelle calzature, i posti a sedere riservati negli edifici di spettacolo, la partecipazione ai banchetti pubblici offerti da magistrati o da privati, una quota pari a quella destinata ai decurioni nelle distribuzioni in denaro e in natura e infinte la fornitura d’acqua privata. Spesso il cambiamento di status avviene già nella generazione successiva, con figli di liberti inseriti nelle liste dei decurioni della città.

La mobilità sociale quindi non riguarda la diversità somatica, la romanitas si acquista per via culturale e non etnica. Il colore nero della pelle nella società romana non è causa dello status sociale, non esiste un nesso di causa-effetto tra colore della pelle e status giuridico.
Sicuramente l’impero ci appare basato su ineguaglianza e discriminazione, una situazione chiaramente erede dell’origine aristocratica delle istituzioni fondate sulla divisione in ordines, ma mai basati sui criteri del colore della pelle. Non vi sono popoli segregati a causa della propria origine senza possibilità di integrazione. I confini stessi con la Nubia sono di una vivacità incredibile, famiglie intere mostrano segni multietnici. Il mondo antico hollywoodiano ci appare più lontano che mai. La tolleranza e il rispetto per l’identità locale sono la formula stessa che ha permesso ai romani di arrivare addirittura ben oltre i loro confini, dalla Tanzania all’Azerbaijan (dove è stata trovata una iscrizione della Legio XII Fulminata di epoca domizianea).
Ci risulta incomprensibile per questo l’atteggiamento di chi vuole a tutti i costi dipingere questa grande civiltà dalle teorie proto-naziste e da un’infondata idea di chiusura e odio razziale. Idee contraddette dagli stessi antichi come Ovidio:

“Mentre agli altri popoli è stata concessa una terra con confini precisi, ai romani invece lo spazio del mondo e della città è lo stesso”.

 

Scritto da Giuseppe Giordano

 

Fonti:

D. Foraboschi, S. Bussi, Integrazione e alterità. Incontri/scontri di culture nel mondo antico

R. Tsetskhladze, Greek Racism? Observations on the Character and Limits of Greek Ethnic Prejudice, in Ancients Greeks West and East.

L. Cracco Ruggini, Conoscenze e utopie: i popoli dell’Africa e dell’Oriente.

L. Cracco Ruggini, Gli antichi e il diverso, in L’intolleranza: uguali e diversi nella storia

L. Cracco Ruggini, il negro buono e il negro malvagio nel mondo classico

Augusto, Res Gestae, in P. Arena, Res Gestae. I miei atti

S. Giorcelli Bersani, Epigrafia e storia di Roma

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8 pensieri riguardo “IL RAZZISMO NELL’IMPERO ROMANO

  1. bell’articolo, comunque è innegabile che agli occhi dei romani come a quello dei greci il mondo orientale era sinonimo di degenerazione perversione. basta vedere le argomentazioni di ottaviano contro antonio

    1. è un po troppo semplicistica detta così. Il mondo orientale è stato ma solo in un determinato lasso di tempo ( e sopratutto per delle determinate cause[politiche in primis]) immaginato come mondo di degenerazione e perversione.

  2. Ottimo articolo contro quelli che solo per il fatto di vedere come Mussolini si sia “ispirato” all’Impero Romano per l’Italia Fascista allora si sentono convinti di credere che gli antichi romani erano “razzisti” e “xenofobi”. Tant’é vero che l’imperatore Traiano (se non sbaglio) era iberico. 😉

  3. Mi unisco al generale apprezzamento dell’articolo: le civiltà antiche sono troppo spesso vittime di manipolazioni ideologiche anacronistiche (mi viene in mente, ad esempio, il concetto di “democrazia”, spesso trattato come se nell’Atene di V secolo fosse identico a quello che abbiamo oggi)… quindi teniamo alto il vessillo della verità storica e le opinioni basate sulle fonti, una scelta che non sempre chi parla di storia e cultura del passato si cura di operare e che, invece, rende pezzi come questo, oltre che interessanti, coerenti e fondati. Complimenti! 🙂

  4. Articolo davvero apprezzabile.
    Solo un cieco o o un ignorante può parlare di razzismo a proposito di un impero multietnico dove convivevano popolazioni italiche, greche, celtiche, germaniche, africane, asiatiche, ebree ecc., i cui abitanti tutti, purché liberi, a partire dal 212 d.C furono giuridicamente dichiarati “cives romani” a pieno titolo. A tal proposito, mi permetto di aggiungere una riflessione pubblicata sul mio profilo Facebook:
    ” Chi erano gli antichi Romani? Intendo dire: quando diciamo “Romani antichi” di quali persone, di quale popolo parliamo?
    Parliamo di coloro che erano nati a Roma? Allora non sarebbero Romani: né il “pater Ennius”, che nacque in Puglia (“Nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini”), né Plauto che nacque a Sarsina, né Lucrezio, che nacque quasi certamente in Campania, né Catullo che nacque a Verona, né Virgilio, che nacque a Mantova, né Orazio, che nacque a Venosa da un ex schiavo, né Tito Livio, che nacque a Padova (e quando parlava conservava un certo accento padovano), né Seneca, che nacque a Cordova, né Tacito, che nacque forse in Gallia (secondo altri a Terni). Insomma quasi nessun esponente della letteratura latina era romano di nascita.
    Parliamo dei popoli di lingua latina? Ma la parte orientale dell’impero continuò a parlare greco, anche dopo la conquista romana.
    Parliamo di gente, di stirpe, di etnia (un tempo si sarebbe detto di “razza”) romana? Ma un’etnia romana non esiste, e gli stessi Romani antichi ne avevano consapevolezza, se nel racconto delle loro origini inserirono il “ratto delle Sabine”.
    Romani erano in realtà i “cittadini romani”: per nascita o per meriti, fino al 212.d.C; tutti gli abitanti liberi, a partire da quella data. Per non parlare solo degli imperatori, “romani” erano gli iberici Seneca e Lucano; gli ebrei Flavio Giuseppe e Paolo di Tarso; il berbero Quinto Lollio Urbico e il gallo Rutilio Namaziano, il quale, proprio mentre l’impero collassava, descrivendo il suo difficile viaggio dall’Urbe verso la patria invasa dai Visigoti, lasciò il più alto elogio dell’opera civilizzatrice di Roma: “fecisti patriam diversis gentibus unam”. Questa è la ragione per cui ancora oggi vale la pena parlare dell’Impero Romano: a partire da una certa data, tutti gli uomini liberi che vi abitavano, senza distinzioni di razza, di lingua, di colore della pelle, furono “cives romani”. In Europa, oggi, siamo lontani da questo risultato.

  5. Ottimo articolo. Chi parla di razzismo nell’Impero Romano, non ha capito niente della politica di integrazione dei popoli che fu costante in tutta la sua storia.
    C’è un passo di Tacito che documenta meglio di ogni altro questo indirizzo politico. Ne è protagonista l’imperatore CLAUDIO (41-54 d.C.), che pure non fu temuto in grande considerazione dai suoi contemporanei: compatito o addirittura messo in ridicolo nell’ambito della sua stessa famiglia, soprattutto a causa della sua balbuzie, zimbello delle sue mogli, soprattutto di Messalina, che lo tradiva spudoratamente, e di Agrippina, che forse lo fece avvelenare con un piatto di funghi, divenne imperatore quasi per caso. Dopo la sua morte fu persino oggetto di una velenosa parodia da parte di Seneca, che così si vendicava della relegazione alla quale era stato condannato in Corsica.
    Eppure, sul problema dell’integrazione dei popoli nello stato, egli potrebbe dare una lezione a molti governanti di oggi. Questo discorso tenuto in Senato delinea perfettamente la politica dell’Impero Romano verso i popoli che ne facevano parte. Essa è tanto più notevole perché fu unica nel mondo antico. Si consideri che in Atene, nell’età di Pericle, per avere il diritto di cittadinanza non bastava essere nati da un padre già cittadino, anche la madre doveva esserlo!

    “Sotto il consolato di A. Vitellio e L. Vipsano, (48 d.C.) mentre si discuteva sul modo di integrare il Senato, i capi della Gallia “Comata” (cioè la Gallia Transalpina), che avevano già ottenuto i diritti di federati e quelli della cittadinanza romana, richiesero il diritto di ottenere cariche in Roma, cosa che suscitò molti e svariati commenti. Si discuteva di ciò presso il principe con opposti punti di vista, poiché alcuni affermavano che l’Italia non era poi così mal ridotta da non poter rifornire il Senato di Roma … … Tutte le cariche sarebbero ora state occupate da quei ricchi, i cui nonni e bisnonni, capi di nazioni nemiche, avevano assalito e fatto a pezzi i nostri eserciti e stretto d’assedio il divo Giulio ad Alesia … …”
    “Tali discorsi non commossero il principe che, convocato il Senato, si affrettò a confutarli, cominciando così: I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri nel governare lo stato, col far venire a Roma quanto di pregevole vi sia altrove. Non ignoro, infatti, che i Giulii furono chiamati da Alba, i Coruncanii da Camero, i Porcii da Tuscolo, e, per non risalire ad epoche più antiche, dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia furono chiamati uomini al Senato romano. L’Italia stessa portò i suoi confini alle Alpi, in modo che non solo i singoli individui, ma le terre e le genti si congiungessero strettamente al nostro nome. Allora in patria fiorì pace duratura e noi toccammo il massimo della potenza nei rapporti con le altre genti, quando, accolti come cittadini i Transpadani, si poté risollevare l’indebolito impero, assimilando i migliori elementi provinciali, col pretesto di fondare colonie militari. E’ il caso di pentirsi, forse, che dalla Spagna siano venuti i Balbi e dalla Gallia Narbonese uomini non meno famosi? Rimangono i loro discendenti, che non sono a noi secondi nell’amore verso questa patria. A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero militarmente, tenevano i vinti in conto di stranieri? Romolo, fondatore della nostra città, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri ebbero presso di noi il regno, e l’affidare a figli di liberti uffici pubblici, non è, come molti falsamente credono, cosa di questi tempi, ma già era stato fatto nella precedente costituzione. E’ pur vero che noi combattemmo contro i Senoni, ma non si sono forse mai schierati contro di noi in campo aperto i Volsci e gli Equi? Fummo sottomessi ai Galli, ma abbiamo anche consegnato ostaggi ai Tusci ed abbiamo subito dai Sanniti l’umiliazione del giogo. Pur tuttavia, se esaminiamo tutte le guerre, vediamo che nessuna si concluse in più breve tempo che quella contro i Galli, coi quali in seguito fu pace continua e sicura. Ormai essi si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nei vincoli di sangue; ci portino anche il loro oro, piuttosto che tenerlo per sé. O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime, furono nuove un tempo; dopo i magistrati patrizi vennero i plebei, dopo i plebei i Latini, dopo i Latini quelli degli altri popoli italici. Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi”. (C. Tacito, Annali, XI, 23-24, BUR, 2007, p. 459-62).

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